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Vacche,
campanacci e sentimenti
di Aldo Molinengo
Un’espressione spontanea di sentimenti a volte abbellisce i collari e i
campanacci delle vacche all’alpeggio, quasi come se non bastasse più
l’antica abitudine di avere nel portafoglio la foto di chi si ama, o
l’immagine di qualche santo o madonna a cui si è devoti. Molti margari
affidano alle vacche più importanti della loro mandria, quelle a cui si è un
po’ più affezionati, variopinti messaggi di amore, ricordo, fede, e chissà
cos’altro, scritti con le borchie sul cuoio dei collari, o disegnati sul
metallo delle campane appese.
Un messaggio che si libera proprio in montagna, dove il cielo è più
vicino e l’infinito sembra quasi essere qualcosa che si può toccare con mano.
È un riferimento importante per il margaro che ha deciso per quel collare e per
quella vacca, ma è anche lo specchio della sua anima umana che vuole lasciare
un qualcosa di sé nei pascoli, tra l’erba e il cielo. Un
segno intimo, che si vuole che non sia più solo personale, ma di tanti altri. E
per questo lo si affida ad un animale prezioso per l’economia famigliare, e
che fa parte della propria vita e del proprio mondo.
Alessandro Midulla, calamitando subito la collaborazione di
Lorenzo Griotti e di Paolo Viano, si è inserito in questa tradizione, con
l’idea e il progetto di far sì che a questo segno voluto da ogni margaro se
ne uniscano altri, scritti da poeti, disegnati da artisti e musicati da
musicisti.
Poesie scritte sui collari, disegni lasciati sui campanacci, musiche
sparse negli spazi montanari. Tutto questo nel tempo di una stagione, quella che
per antica tradizione c’è tra due santi, san Giovanni il 24 giugno e san
Michele il 29 settembre. L’estate.
Ma per la montagna non è solo l’estate, perché alle quote più alte
spesso il tempo del cielo gira di nuovo in primavera, o già in autunno, o
addirittura in inverno. È il tempo dell’alpeggio.
L’erba, liberata del peso di mesi e metri di neve, si lascia
calpestare e mangiare da tante bovine, dopo essersi fatta incantare dal suono
dei loro campanacci, quasi un’anestesia prima del taglio operato dai denti
delle vacche. Campanacci che avvolgono con la loro sonorità tutto l’intorno,
riflettendo nel loro suono le forme del cielo, suonando limpidi e puliti quando
è sereno, un po’ più ovattati quando c’è la nebbia, o confusi con il
rumore della pioggia. Intanto, l’erba mangiata ricrescerà, accarezzata dal
sole, dalla pioggia, dal vento, e si piegherà di nuovo al passaggio di tante
mandrie.
Una storia, che si spera infinita, che dura da millenni nei posti più
vicini al cielo. E a questi spazi, insieme alle vacche e ai loro campanacci,
saliranno e si allargheranno tutto attorno le parole, le immagini e i suoni di
chi ha voluto mescolare il proprio sentimento a quello dei margari, delle loro
bestie e di tutto quello che abita la montagna, tra silenzio e suono.
Il silenzio di tutto si unirà al silenzio di parole scritte e
di immagini disegnate. Il suono del vento, della pioggia, del torrente, degli
uomini, degli animali, dei campanacci, si unirà al suono dei musicisti.